La preparazione dei cibi è parte integrante della tradizione e della cultura di un popolo, di un contesto sociale, di una famiglia ed è veramente un’arte: l’arte culinaria, appunto. Federico, multiforme e poliedrico, era appassionato di quest’arte.
Amava molto non solo la buona tavola, ma anche l’arte di apparecchiarla e presentarla agli ospiti, che non mancavano mai a corte. Era un buongustaio che esigeva cibi di estrema delicatezza. Gradiva molto il brodo di mandorle, prediligeva salse raffinate trattate con molto pepe, cannella, zenzero, noce moscata, garofano, zafferano.
Per la sua tavola personale erano necessarie giornalmente due libbre di mandorle e da questo si deduce che 18 erano quotidianamente i commensali. Amava i prosciutti e i formaggi, i frutti siciliani e pugliesi: noci, uva, arance, nespole, nocciole, pinoli, pistacchi, fichi… pesce in gelatina, vino di Grecia e di Gallipoli.
Amante del più lussuoso arredo, voleva splendidi il vasellame e le stoviglie, del lino più fine le tovaglie. A Berardo, suo cuoco personale, fece consegnare i migliori pesci di Resina (oggi Ercolano), perché realizzasse l’askipeciam (lo scapece), che era la frittura di piccoli pesci fatti marinare in una salsa di farina bollita nell’aceto con l’aggiunta di un pizzico di zafferano. Lo scapece si conservava in recipienti di legno ed è ancora in uso nel Leccese, nel Molise e in altre località d’Italia.
Federico amava anche farsi preparare le violette candite che, oltre a servire per i dolci, pare avessero, per Federico e Pier delle Vigne, un potere terapeutico. Tanto, davvero tanto si è scritto e dibattuto sull’Imperatore svevo e nonostante ciò, il mistero intorno a lui rimane.
Federico è “l’uomo” con tutte le componenti in positivo e in negativo. Ad onta di ogni giudizio lusinghiero o riduttivo, vanno apprezzate di lui qualità come il coraggio, l’intraprendenza, l’amore per l’arte e la tenacia. Da quest’ultima noi del Mezzogiorno dovremmo trarre esempio, se è vero che possiamo considerare nostro antenato un tedesco della stirpe degli Hohenstaufen.
Dante Alighieri, pur confinandolo nell’inferno tra gli eresiarchi e gli epicurei, “che l’anima col corpo morta fanno”, ebbe per lui un’ammirazione che si manifesta ampia e indiscutibile nel De vulgari eloquentia, in cui si legge: “L’Imperatore Federico II e il suo nobile figlio Manfredi, che furono signori grandi e illustri, mostrarono la elevatezza e la rettitudine della loro anima, dedicandosi, finché la fortuna lo permise, alle attività proprie dell’uomo e sdegnando quelle delle bestie”.
Grazia Stella Elia